Dipendenza e indipendenza derivano dal latino dependere che significa “pendere giù da qualcosa”. Dipendere significa che la nostra vita è legata alla volontà di qualcuno o qualcosa; essere indipendenti significa avere la libertà, la possibilità di agire secondo la propria volontà.
Ma la dipendenza di per sé non è sbagliata: noi nasciamo dipendenti, il bambino è infatti dipendente dal genitore; anzi, per poter sviluppare una sana indipendenza ci deve essere stata una sana dipendenza dove sperimentare una base sicura: un luogo psicologico da cui il bambino può partire per esplorare il mondo e a cui può tornare quando si sente minacciato, permettendone così la crescita e l’acquisizione di competenze; è la consapevolezza di essere sostenuti da qualcuno che ti appoggia, qualcuno su cui puoi fare affidamento e a cui ti puoi rivolgere nel momento del bisogno.
La simbiosi, definita in campo psicologico come una forma di pensiero che determina un tipo di comportamento di stretta dipendenza, è infatti sana e necessaria per il neonato che dipende totalmente dalla mamma – o altra figura di riferimento – che ne garantisce la sopravvivenza e ha la funzione di fornirgli una base sicura: questo potrà aiutarlo, anche in futuro, a sentirsi sicuro di sé affrontando il mondo con tranquillità. La simbiosi invece, diventa invalidante se trasportata nelle relazioni in età adulta: c’è un problema nel distacco, non è stato acquisito un senso di sé autonomo, ci si sente incompleti e nulla senza l’altro.
Quindi si può affermare che fa parte della natura umana dipendere dagli altri ma c’è differenza tra dipendenza sana e dipendenza patologica. Una dipendenza viene considerata sana quando, benché siamo inseriti all’interno di relazioni di dipendenza – in rapporti che arricchiscono basati sul dare e avere tra adulti che si rispettano – riusciamo comunque a vivere per noi stessi, a prenderci cura di noi e a fare le cose autonomamente. Una dipendenza invece diviene patologica nel momento in cui l’altra persona diventa vitale, l’unico centro di interesse che annulla e assorbe senza dare nulla in cambio; se ne ha bisogno in maniera ossessiva per colmare la solitudine, l’angoscia, un senso di vuoto che, solitamente, ha origini più antiche: in questo caso si può parlare di dipendenza affettiva.
La dipendenza affettiva non è il bisogno di essere amati, protetti e riconosciuti che, come sostiene Maslow (1954), rientra nei bisogni fondamentali dell’uomo; ipotesi sostenuta anche dalla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969; 1973; 1980): benché noi tutti proviamo il bisogno viscerale di formare legami stretti, è il modo in cui li creiamo ad essere diverso.
In linea generale la dipendenza affettiva è una condizione relazionale negativa caratterizzata da un’assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva, da una difficoltà a mettere dei confini nel rapporto con l’altro, da una fatica a trovare un equilibrio tra bisogni di autonomia e bisogni di dipendenza, generando così un malessere psicologico, ossessione, paura della relazione e dell’abbandono piuttosto che benessere e serenità.
La dipendenza affettiva può manifestarsi in modalità diverse: esistono infatti diverse tipologie di dipendenti affettivi e il proprio profilo personale può essere una sovrapposizione di più categorie.
La psicoterapia è uno strumento di cambiamento finalizzato al benessere della persona che, acquisendo la consapevolezza del proprio stile relazionale, avrà la possibilità di comprenderne l’origine e di attivare le proprie risorse per imparare a costruire relazioni soddisfacenti riconoscendo il proprio valore.
Dott.ssa Annalisa De Filippo
Psicologa Psicoterapeuta Sesto San Giovanni (Milano)